- Diritto comunitario, diritto dell'ambiente:
CORTE DI GIUSTIZIA UE: PRESUNZIONI VALIDE PER APPLICARE IL PRINCIPIO CHI INQUINA PAGA (fonte: newsletter giuridica Filodiritto.com)
Rispondendo ad una domanda di pronuncia pregiudiziale promossa dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, la Corte di Giustizia UE ha fornito in materia di responsabilità per inquinamento due importanti orientamenti:
- La direttiva 2004/35 non osta a una normativa nazionale che consente all’autorità competente, in sede di esecuzione della citata direttiva, di presumere l’esistenza di un nesso di causalità, anche nell’ipotesi di inquinamento a carattere diffuso, tra determinati operatori e un inquinamento accertato, e ciò in base alla vicinanza dei loro impianti alla zona inquinata. Tuttavia, conformemente al principio «chi inquina paga», per poter presumere secondo tale modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità detta autorità deve disporre di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività.
- Gli artt. 3, n. 1, 4, n. 5, e 11, n. 2, della direttiva 2004/35 devono essere interpretati nel senso che, quando decide di imporre misure di riparazione del danno ambientale ad operatori le cui attività siano elencate nell’allegato III a detta direttiva, l’autorità competente non è tenuta a dimostrare né un comportamento doloso o colposo, né un intento doloso in capo agli operatori le cui attività siano considerate all’origine del danno ambientale. Viceversa spetta a questa autorità, da un lato, ricercare preventivamente l’origine dell’accertato inquinamento, attività riguardo alla quale detta autorità dispone di un potere discrezionale in merito alle procedure e ai mezzi da impiegare, nonché alla durata di una ricerca siffatta. Dall’altro, questa autorità è tenuta a dimostrare, in base alle norme nazionali in materia di prova, l’esistenza di un nesso di causalità tra l’attività degli operatori cui sono dirette le misure di riparazione e l’inquinamento di cui trattasi.
La Corte ha affermato che "la normativa di uno Stato membro può prevedere che l’autorità competente abbia facoltà di imporre misure di riparazione del danno ambientale presumendo l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inquinamento accertato e le attività del singolo o dei diversi operatori, e ciò in base alla vicinanza degli impianti di questi ultimi con il menzionato inquinamento. Tuttavia, dato che, conformemente al principio «chi inquina paga», l’obbligo di riparazione incombe agli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di inquinamento (v., per analogia, sentenza 24 giugno 2008, causa C-188/07, Commune de Mesquer, Racc. pag. I-4501, punto 77), per poter presumere secondo tali modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità l’autorità competente deve disporre di indizi plausibili in grado di dar fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività".
( Corte di Giustizia UE, Sentenza 9 marzo 2010: Principio “chi inquina paga” – Direttiva 2004/35/CE – Responsabilità ambientale – Applicabilità ratione temporis – Inquinamento anteriore alla data prevista per il recepimento di detta direttiva e proseguito dopo tale data – Normativa nazionale che imputa i costi di riparazione dei danni connessi a detto inquinamento a una pluralità di imprese – Requisito del comportamento doloso o colposo – Requisito del nesso di causalità – Appalti pubblici di lavori).
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- Diritto commerciale, diritto d'autore, diritto industriale, diritto delle nuove tecnologie:
CORTE DI GIUSTIZIA UE:
DELL'INSERZIONE SUL MOTORE DI RICERCA RISPONDE L'INSERZIONISTA
Quale naturale corollario della pronuncia su Google la Corte di Giustizia ha stabilito che:
L’art. 5, n. 1, della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, deve essere interpretato nel senso che il titolare di un marchio ha il diritto di vietare che un inserzionista – sulla base di una parola chiave identica o simile a tale marchio, da lui scelta, senza il consenso del detto titolare, nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet – faccia pubblicità a prodotti o servizi identici a quelli per i quali il marchio in questione è stato registrato, qualora tale pubblicità non consenta o consenta solo difficilmente all’utente medio di Internet di sapere se i prodotti o i servizi cui si riferisce l’annuncio provengano dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente collegata a quest’ultimo ovvero, al contrario, da un terzo.
La Corte ha in particolare ricordato che "qualora l’annuncio del terzo suggerisca l’esistenza di un legame economico tra tale terzo e il titolare del marchio, si dovrà concludere che sussiste un pregiudizio della funzione di indicazione di origine. Allo stesso modo, qualora l’annuncio, pur non suggerendo l’esistenza di un legame economico, sia talmente vago sull’origine dei prodotti o dei servizi in questione che un utente di Internet normalmente informato e ragionevolmente attento non sia in grado di sapere, sulla base del link promozionale e del messaggio commerciale allegato, se l’inserzionista sia un terzo rispetto al titolare del marchio o, al contrario, sia economicamente collegato a quest’ultimo, si dovrà parimenti concludere che sussiste un pregiudizio della detta funzione del marchio".
(Corte di Giustizia UE, Sentenza 25 marzo 2010: Marchi – Internet – Pubblicità a partire da parole chiave (“keyword advertising”) – Visualizzazione, a partire da parole chiave identiche o simili a marchi, di link verso siti di concorrenti dei titolari di tali marchi – Direttiva 89/104/CEE – Art. 5, n. 1).
CORTE DI GIUSTIZIA UE: PRESUNZIONI VALIDE PER APPLICARE IL PRINCIPIO CHI INQUINA PAGA (fonte: newsletter giuridica Filodiritto.com)
Rispondendo ad una domanda di pronuncia pregiudiziale promossa dal Tribunale amministrativo regionale della Sicilia, la Corte di Giustizia UE ha fornito in materia di responsabilità per inquinamento due importanti orientamenti:
- La direttiva 2004/35 non osta a una normativa nazionale che consente all’autorità competente, in sede di esecuzione della citata direttiva, di presumere l’esistenza di un nesso di causalità, anche nell’ipotesi di inquinamento a carattere diffuso, tra determinati operatori e un inquinamento accertato, e ciò in base alla vicinanza dei loro impianti alla zona inquinata. Tuttavia, conformemente al principio «chi inquina paga», per poter presumere secondo tale modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità detta autorità deve disporre di indizi plausibili in grado di dare fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività.
- Gli artt. 3, n. 1, 4, n. 5, e 11, n. 2, della direttiva 2004/35 devono essere interpretati nel senso che, quando decide di imporre misure di riparazione del danno ambientale ad operatori le cui attività siano elencate nell’allegato III a detta direttiva, l’autorità competente non è tenuta a dimostrare né un comportamento doloso o colposo, né un intento doloso in capo agli operatori le cui attività siano considerate all’origine del danno ambientale. Viceversa spetta a questa autorità, da un lato, ricercare preventivamente l’origine dell’accertato inquinamento, attività riguardo alla quale detta autorità dispone di un potere discrezionale in merito alle procedure e ai mezzi da impiegare, nonché alla durata di una ricerca siffatta. Dall’altro, questa autorità è tenuta a dimostrare, in base alle norme nazionali in materia di prova, l’esistenza di un nesso di causalità tra l’attività degli operatori cui sono dirette le misure di riparazione e l’inquinamento di cui trattasi.
La Corte ha affermato che "la normativa di uno Stato membro può prevedere che l’autorità competente abbia facoltà di imporre misure di riparazione del danno ambientale presumendo l’esistenza di un nesso di causalità tra l’inquinamento accertato e le attività del singolo o dei diversi operatori, e ciò in base alla vicinanza degli impianti di questi ultimi con il menzionato inquinamento. Tuttavia, dato che, conformemente al principio «chi inquina paga», l’obbligo di riparazione incombe agli operatori solo in misura corrispondente al loro contributo al verificarsi dell’inquinamento o al rischio di inquinamento (v., per analogia, sentenza 24 giugno 2008, causa C-188/07, Commune de Mesquer, Racc. pag. I-4501, punto 77), per poter presumere secondo tali modalità l’esistenza di un siffatto nesso di causalità l’autorità competente deve disporre di indizi plausibili in grado di dar fondamento alla sua presunzione, quali la vicinanza dell’impianto dell’operatore all’inquinamento accertato e la corrispondenza tra le sostanze inquinanti ritrovate e i componenti impiegati da detto operatore nell’esercizio della sua attività".
( Corte di Giustizia UE, Sentenza 9 marzo 2010: Principio “chi inquina paga” – Direttiva 2004/35/CE – Responsabilità ambientale – Applicabilità ratione temporis – Inquinamento anteriore alla data prevista per il recepimento di detta direttiva e proseguito dopo tale data – Normativa nazionale che imputa i costi di riparazione dei danni connessi a detto inquinamento a una pluralità di imprese – Requisito del comportamento doloso o colposo – Requisito del nesso di causalità – Appalti pubblici di lavori).
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- Diritto commerciale, diritto d'autore, diritto industriale, diritto delle nuove tecnologie:
CORTE DI GIUSTIZIA UE:
DELL'INSERZIONE SUL MOTORE DI RICERCA RISPONDE L'INSERZIONISTA
Quale naturale corollario della pronuncia su Google la Corte di Giustizia ha stabilito che:
L’art. 5, n. 1, della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, deve essere interpretato nel senso che il titolare di un marchio ha il diritto di vietare che un inserzionista – sulla base di una parola chiave identica o simile a tale marchio, da lui scelta, senza il consenso del detto titolare, nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet – faccia pubblicità a prodotti o servizi identici a quelli per i quali il marchio in questione è stato registrato, qualora tale pubblicità non consenta o consenta solo difficilmente all’utente medio di Internet di sapere se i prodotti o i servizi cui si riferisce l’annuncio provengano dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente collegata a quest’ultimo ovvero, al contrario, da un terzo.
La Corte ha in particolare ricordato che "qualora l’annuncio del terzo suggerisca l’esistenza di un legame economico tra tale terzo e il titolare del marchio, si dovrà concludere che sussiste un pregiudizio della funzione di indicazione di origine. Allo stesso modo, qualora l’annuncio, pur non suggerendo l’esistenza di un legame economico, sia talmente vago sull’origine dei prodotti o dei servizi in questione che un utente di Internet normalmente informato e ragionevolmente attento non sia in grado di sapere, sulla base del link promozionale e del messaggio commerciale allegato, se l’inserzionista sia un terzo rispetto al titolare del marchio o, al contrario, sia economicamente collegato a quest’ultimo, si dovrà parimenti concludere che sussiste un pregiudizio della detta funzione del marchio".
(Corte di Giustizia UE, Sentenza 25 marzo 2010: Marchi – Internet – Pubblicità a partire da parole chiave (“keyword advertising”) – Visualizzazione, a partire da parole chiave identiche o simili a marchi, di link verso siti di concorrenti dei titolari di tali marchi – Direttiva 89/104/CEE – Art. 5, n. 1).
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Focus - Diritto commerciale, diritto d'autore, diritto industriale, diritto delle nuove tecnologie: CORTE DI GIUSTIZIA UE: GOOGLE SÌ MA CON GIUDIZIO
E' arrivata la pronuncia della Corte di Giustizia UE a seguito delle domande di pronuncia pregiudiziale formulata nell’ambito di controversie che vedono contrapposte, in cause distinte, le società Google France SARL e Google Inc. e diverse altre società tra cui Louis Vuitton Malletier SA, Viaticum SA, Luteciel SARL, Centre national de recherche en relations humaines (CNRRH) SARL e Tiger SARL, e due privati, in ordine alla visualizzazione su Internet di link pubblicitari a partire da parole chiave corrispondenti a marchi di impresa.
In particolare, le domande vertono sull’interpretazione dell’art. 5, nn. 1 e 2, della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, dell’art. 9, n. 1, del regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario, e dell’art. 14 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 8 giugno 2000, 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico»).
La Corte ha così concluso:
1) Gli artt. 5, n. 1, lett. a), della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, e 9, n. 1, lett. a), del regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario, devono essere interpretati nel senso che il titolare di un marchio può vietare ad un inserzionista di fare pubblicità – a partire da una parola chiave identica a detto marchio, selezionata da tale inserzionista nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet senza il consenso dello stesso titolare – a prodotti o servizi identici a quelli per cui detto marchio è registrato, qualora la pubblicità di cui trattasi non consenta, o consenta soltanto difficilmente, all’utente medio di Internet di sapere se i prodotti o i servizi indicati nell’annuncio provengano dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente connessa a quest’ultimo o invece da un terzo.
2) Il prestatore di un servizio di posizionamento su Internet che memorizza come parola chiave un segno identico a un marchio e organizza, a partire da quest’ultima, la visualizzazione di annunci non fa un uso di tale segno ai sensi dell’art. 5, nn. 1 e 2, della direttiva 89/104 o dell’art. 9, n. 1, del regolamento n. 40/94.
3) L’art. 14 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 8 giugno 2000, 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico»), deve essere interpretato nel senso che la norma ivi contenuta si applica al prestatore di un servizio di posizionamento su Internet qualora detto prestatore non abbia svolto un ruolo attivo atto a conferirgli la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati. Se non ha svolto un siffatto ruolo, detto prestatore non può essere ritenuto responsabile per i dati che egli ha memorizzato su richiesta di un inserzionista, salvo che, essendo venuto a conoscenza della natura illecita di tali dati o di attività di tale inserzionista, egli abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati o disabilitare l’accesso agli stessi.
In sostanza, la Corte ha dichiarato che " il prestatore di un servizio di posizionamento su Internet che memorizza, come parola chiave, un segno identico a un marchio notorio e, a partire dalla stessa, organizza la visualizzazione di annunci, non fa un uso di tale segno" che il titolare del marchio possa vietare.
In merito al sistema AdWords, secondo la Corte: "senza che sia necessario esaminare se la pubblicità su Internet in base a parole chiave identiche a marchi di concorrenti costituisca o meno una forma di pubblicità comparativa, risulta comunque che, alla stregua di quanto dichiarato dalla giurisprudenza citata, l’uso che l’inserzionista fa del segno identico al marchio di un concorrente, affinché l’utente di Internet conosca non soltanto i prodotti o i servizi offerti da tale concorrente ma anche quelli di detto inserzionista, è un uso per i prodotti o i servizi di tale inserzionista. Peraltro, si ha uso «per prodotti o servizi» anche nel caso in cui, attraverso il proprio uso del segno identico al marchio come parola chiave, l’inserzionista non miri a presentare i propri prodotti o servizi agli utenti di Internet come un’alternativa rispetto ai prodotti o ai servizi del titolare del marchio, ma, al contrario, intenda indurre in errore gli utenti di Internet sull’origine dei propri prodotti o servizi, lasciando credere loro che gli stessi provengono dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente legata a quest’ultimo".
E ancora "quando l’utente di Internet inserisce il nome di un marchio quale parola da ricercare, il link verso la pagina iniziale e verso il sito sponsorizzato del titolare di detto marchio comparirà nell’elenco dei risultati naturali e, di regola, tra i primi posti di tale elenco. Tale visualizzazione, che inoltre è gratuita, comporta che all’utente di Internet è garantita la visibilità dei prodotti o servizi del titolare del marchio, indipendentemente dal fatto che tale titolare riesca o meno ad ottenere che un annuncio nella rubrica «link sponsorizzati» venga visualizzato del pari tra i primi posti".
Focus - Diritto commerciale, diritto d'autore, diritto industriale, diritto delle nuove tecnologie: CORTE DI GIUSTIZIA UE: GOOGLE SÌ MA CON GIUDIZIO
E' arrivata la pronuncia della Corte di Giustizia UE a seguito delle domande di pronuncia pregiudiziale formulata nell’ambito di controversie che vedono contrapposte, in cause distinte, le società Google France SARL e Google Inc. e diverse altre società tra cui Louis Vuitton Malletier SA, Viaticum SA, Luteciel SARL, Centre national de recherche en relations humaines (CNRRH) SARL e Tiger SARL, e due privati, in ordine alla visualizzazione su Internet di link pubblicitari a partire da parole chiave corrispondenti a marchi di impresa.
In particolare, le domande vertono sull’interpretazione dell’art. 5, nn. 1 e 2, della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, dell’art. 9, n. 1, del regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario, e dell’art. 14 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 8 giugno 2000, 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico»).
La Corte ha così concluso:
1) Gli artt. 5, n. 1, lett. a), della prima direttiva del Consiglio 21 dicembre 1988, 89/104/CEE, sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, e 9, n. 1, lett. a), del regolamento (CE) del Consiglio 20 dicembre 1993, n. 40/94, sul marchio comunitario, devono essere interpretati nel senso che il titolare di un marchio può vietare ad un inserzionista di fare pubblicità – a partire da una parola chiave identica a detto marchio, selezionata da tale inserzionista nell’ambito di un servizio di posizionamento su Internet senza il consenso dello stesso titolare – a prodotti o servizi identici a quelli per cui detto marchio è registrato, qualora la pubblicità di cui trattasi non consenta, o consenta soltanto difficilmente, all’utente medio di Internet di sapere se i prodotti o i servizi indicati nell’annuncio provengano dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente connessa a quest’ultimo o invece da un terzo.
2) Il prestatore di un servizio di posizionamento su Internet che memorizza come parola chiave un segno identico a un marchio e organizza, a partire da quest’ultima, la visualizzazione di annunci non fa un uso di tale segno ai sensi dell’art. 5, nn. 1 e 2, della direttiva 89/104 o dell’art. 9, n. 1, del regolamento n. 40/94.
3) L’art. 14 della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 8 giugno 2000, 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici dei servizi della società dell’informazione, in particolare il commercio elettronico, nel mercato interno («Direttiva sul commercio elettronico»), deve essere interpretato nel senso che la norma ivi contenuta si applica al prestatore di un servizio di posizionamento su Internet qualora detto prestatore non abbia svolto un ruolo attivo atto a conferirgli la conoscenza o il controllo dei dati memorizzati. Se non ha svolto un siffatto ruolo, detto prestatore non può essere ritenuto responsabile per i dati che egli ha memorizzato su richiesta di un inserzionista, salvo che, essendo venuto a conoscenza della natura illecita di tali dati o di attività di tale inserzionista, egli abbia omesso di prontamente rimuovere tali dati o disabilitare l’accesso agli stessi.
In sostanza, la Corte ha dichiarato che " il prestatore di un servizio di posizionamento su Internet che memorizza, come parola chiave, un segno identico a un marchio notorio e, a partire dalla stessa, organizza la visualizzazione di annunci, non fa un uso di tale segno" che il titolare del marchio possa vietare.
In merito al sistema AdWords, secondo la Corte: "senza che sia necessario esaminare se la pubblicità su Internet in base a parole chiave identiche a marchi di concorrenti costituisca o meno una forma di pubblicità comparativa, risulta comunque che, alla stregua di quanto dichiarato dalla giurisprudenza citata, l’uso che l’inserzionista fa del segno identico al marchio di un concorrente, affinché l’utente di Internet conosca non soltanto i prodotti o i servizi offerti da tale concorrente ma anche quelli di detto inserzionista, è un uso per i prodotti o i servizi di tale inserzionista. Peraltro, si ha uso «per prodotti o servizi» anche nel caso in cui, attraverso il proprio uso del segno identico al marchio come parola chiave, l’inserzionista non miri a presentare i propri prodotti o servizi agli utenti di Internet come un’alternativa rispetto ai prodotti o ai servizi del titolare del marchio, ma, al contrario, intenda indurre in errore gli utenti di Internet sull’origine dei propri prodotti o servizi, lasciando credere loro che gli stessi provengono dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente legata a quest’ultimo".
E ancora "quando l’utente di Internet inserisce il nome di un marchio quale parola da ricercare, il link verso la pagina iniziale e verso il sito sponsorizzato del titolare di detto marchio comparirà nell’elenco dei risultati naturali e, di regola, tra i primi posti di tale elenco. Tale visualizzazione, che inoltre è gratuita, comporta che all’utente di Internet è garantita la visibilità dei prodotti o servizi del titolare del marchio, indipendentemente dal fatto che tale titolare riesca o meno ad ottenere che un annuncio nella rubrica «link sponsorizzati» venga visualizzato del pari tra i primi posti".
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